Ciao Blynch, il tuo nuovo brano sembra riflettere l’intensità e l’irrazionalità del primo amore, un’esperienza universale che molti possono identificare. Qual è stata la tua fonte di ispirazione per catturare così vivacemente questa sensazione?
Ho tratto molta dell’ispirazione per la stesura di questa canzone dalla mia personale esperienza del primo amore. In particolare, molto deriva dal cruccio di non essere stato in grado di codificarla a pieno nel momento in cui è successa. Non puoi mai veramente sapere in anticipo quando succederanno le cose più belle della tua vita ed essere mentalmente preparatə, te ne accorgi sempre al passato. Per questo credo di non averlo mai del tutto digerito, non l’ho mai del tutto superato. Ho sempre sentito di avere tanto da poter raccontare su questo mio personale viaggio interiore, e questa canzone ne è stata il tentativo più concreto (per ora).
“Un po’ lo sai” sembra evocare la sensazione di sollevarsi da terra e andare altrove, immersi in un vortice di emozioni. Come hai cercato di trasmettere questa sensazione attraverso la tua musica e le tue parole?
Ho cercato di descrivere, con tutti i mezzi che ho a disposizione, un qualcosa che perfino io fatico ancora a comprendere. Ho provato a raccontare qualcosa di estremamente complesso attraverso qualcosa di semplice, per riprendere la medesima contrapposizione che vive nell’amore stesso: è una sensazione articolata, eppure talvolta ci pare così immediata. Avevo registrato la strumentale per intero su un piccolo looper della mia pedaliera, per anni è rimasta lì senza mai avere un suo testo. Mi sono lasciato trasportare dal mood, ho messo il giro in loop nelle cuffie, ho simbolicamente detto alla mia testa “va’ dove vuoi, dimentica tutto il resto”, e lei ha deciso di andare dov’è stata bene.
Il brano descrive il desiderio di rivivere i sentimenti del primo amore con la stessa intensità e romanticismo, indipendentemente dall’età. Qual è il messaggio principale che vuoi trasmettere al pubblico attraverso questa canzone?
Che crescere, per certi versi, fa un po’ schifo. Più si matura e più certe cose si ingrigiscono, tutto si appiattisce, la vita perde colore. Odio il fatto che nessuno sappia più sorprendersi delle emozioni che prova, che tenda a razionalizzarle al punto da perderne l’unico proposito che hanno: quello di emozionare. “Un po’ lo sai” è un invito a lasciarsi andare alle sensazioni, senza tutti quei freni che ci ancorano perennemente a terra. Vivere per vivere, sorprenderci come se fosse la prima volta per tutto, annullare la distanza tra noi e la realtà. “Un po’ lo sappiamo” tutti che è quello che realmente vorremmo.
Descrivi il brano con un solo aggettivo e dicci perché proprio quello
Ocra. Sarà stranissimo da sentire, ma tendo da sempre a legare un significato cromatico alle cose che mi toccano: credo sia una forma di associazione. “Un po’ lo sai” è ocra perché l’immagine che racconta ha i colori dei pomeriggi d’estate. Di quelli che sembrano la concreta rappresentazione di un paesaggio idilliaco interiore, che ci resteresti per tutta la vita senza mai stancarti. Un paradiso. Anche al mio primo amore associo i colori dei pomeriggi estivi, sarà perché è tutto successo tra i mesi di agosto e settembre. Ribadisco: “Un po’ lo sai” è decisamente ocra.
Qual è stata la tua esperienza personale nel catturare e esprimere queste emozioni attraverso la tua arte?
È stata un’esperienza meravigliosa e frustrante allo stesso tempo: dare una forma alle proprie emozioni è meraviglioso, cercare di comprimerle in un’idea concreta è terribile. Come per la riuscita di ogni opera artistica, bisogna fare i conti con sé stessi ed il proprio criterio di autocritica. Bisogna confrontarsi col mondo delle cose concrete, ed ingegnarsi un po’ per trovare il giusto compromesso. Credo di essere il mio peggior nemico, sotto questo punto di vista. Potrei far uscire trecento canzoni alla settimana, eppure ne esce solo una al mese perché ho sempre la sensazione che non siano pronte. L’arte è fatta di cose sempre inconcluse per l’artista, che però vanno completate dal senso che viene dato all’opera dai fruitori. In questo caso, spero che chi mi ascolta sia statə capace di “completare” laddove io ho lasciato uno spazio vuoto.
Lasciamo l’ ultimo spazio dell’ intervista al nostro ospite. Puoi ora lanciare un tuo messaggio o rispondere alla domanda che avresti voluto ma non ti è stata fatta!
Vorrei soltanto dire che l’oversharing inteso in senso negativo non esiste. È uno stupido costrutto sociale per appiattire tutto con la scusa di renderlo più gestibile. Non è scritto da nessuna parte che l’espressione di qualcosa possa essere eccessiva. Esprimetevi come credete, percepite in grande, la vita è veramente troppo passeggera per poterla limitare così tanto.
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