Intervista a Evelina: “Marta D” è il suo primo singolo

Ciao Evelina, benvenuta su Fuori La Scatola e congratulazioni per il tuo singolo d’esordio “Marta D”. La tua decisione di mantenere l’anonimato e di proporre un progetto artistico queer è affascinante. Qual è stato il pensiero dietro questa scelta e come pensi che influenzi la percezione della tua musica?

Ciao! Questa scelta nasce dalla necessità di proteggere la musica e le parole dallo straripare di facce, di ego, di corpi ipersessualizzati, di storie personali e da qualsiasi forma di pregiudizio. Consumiamo ogni giorno tonnellate di volti, di vite e nell’atto stesso di consumarli ce ne allontaniamo, E tutto questo, malgrado la nostra illusione di essere nel pieno e necessario flusso di azioni e relazioni,  ci isola e ci rende refrattariə all’incontro profondo, alla pazienza, allo stupore, all’imprevisto che crea sempre la sintesi. Sarò una romantica velleitaria, una kamikaze che non se lo può manco permettere, ma non voglio aggiungere un ennesimo personaggio a questa distrazione cognitiva, etica, estetica, emotiva. Attraverso questo gesto di sottrazione militante – che è un mezzo, non un fine – chiedo a me stessa e a chiunque voglia farsi attraversare da ciò che esprimo, se sia ancora possibile sognarsi, agire e incontrarsi in altri modi e mondi, se almeno le arti ne siano ancora capaci. Ed è anche a partire da questa posizione che il mio essere queer esonda sia dall’accezione glamour a cui la società dello spettacolo la sta riducendo, sia da qualsiasi visione binaria, monodimensionale, violenta e staccionata dell’esistente. La condizione queer che abito è una terra di mezzo in cui femminile e maschile danzano insieme, è uno spazio libertario dell’essere, È sostanza con una storia dolorosa, è un gesto di rivolta e uno spazio d’accoglienza e di conflitto (nel senso più rigenerativo del termine), tutt’altro che conquistati. Spero che che attraverso le note le parole e le visioni che vi porto, questa tensione emerga in tutta la sua appassionata sincerità. In questo Marta D è ben rappresentativa del pensiero, dei sentimenti e della libertà di cui è intessuto l’intero concept di cui è frammento. 

La tua collaborazione con MuČe Čengić, un musicista con una storia così ricca e diversificata, ha sicuramente contribuito alla creazione di un suono unico per “Marta D”. Come è stato lavorare con lui e in che modo la sua esperienza ha influenzato il processo creativo del singolo?

L’incontro con Muce è stata l’ennesima prova di come la vita sia sostanzialmente governata da sincronicità che dobbiamo solo imparare a osservare e a lasciar agire con molta fiducia e senza troppe resistenze. Era il 2017, avevo passato gli ultimi 3 anni a scrivere, a suonare e a ritessere stratigrafie sparse nel tempo e nello spazio. Ero a Bologna dal 2015, continuando la spola con la sala Goblins dei Trafalgar Studius di Roma, dove tutto si man mano trovava il suo senso. Non sapevo perché avessi eletto quei luoghi e intrapreso questo viaggio, venivo da tutt’altri luoghi e da tutt’altre priorità, ma tutto e tuttə mi riportavano potentemente verso la musica come totalità. Muce è comparso esattamente in quel momento, e proprio mentre quel materiale magmatico mi stava chiedendo qualcosa che non mi sentivo adeguata a sostenere, forse anche perché non me ne sono mai sentita fino in fondo la “proprietaria”. La sua eccezionale storia artistica e umana, la sua sagacia, il suo rigore, la sua tipica, tagliente ironia sarajevese ne faceva ai miei occhi un punto di riferimento. Avevamo avuto occasione di confrontarci sui massimi sistemi che tanto ci appassionano e ovviamente mi aveva introdotto alla sua discografia, sia da musicista che da produttore, accuratissimo ed eclettico artigianato dalla qualità indiscutibile, dalle forme insieme mutevoli e inconfondibili. Così un giorno ho preso il coraggio a due mani e gli ho chiesto di ascoltare i provini del mio materiale per avere un suo spietatissimo e balcanico giudizio. Minuti interminabili, temevo il linciaggio, ne sarebbe stato capace. Lui ha ascoltato il materiale e insperabilmente mi ha proposto di produrlo pro bono ma a una sola condizione, affidarmi senza se e senza ma ai suoi tempi e ai suoi modi. Ho accettato entusiasta e incredula, senza neanche immaginare che sarebbe iniziata una delle esperienze più trasformative, lunghe e difficili della mia vita. I miei 7 anni in Tibet. Muce mi ha portata su un percorso durissimo e maieutico (più simile a un brutale maestro Zen che a un produttore), umano ancor più che artistico. Il brano e l’intero disco sono letteralmente lievitati, passando da intime idee a qualcosa di solido e autoportante, frutto di un pratica paziente e ostinata, tanto esaltante quanto insidiosa, costellata di migliaia di ostacoli, di domande e dubbi anche feroci, ma il cui fine ultimo è stato ed è soltanto la musica, la sua autenticità, la sua potenza, la sua fragilità. Senza Muce non ci sarebbe Evelina. Ed Evelina ha dato nuova linfa vitale a Muce. Non è solo il generoso produttore di questo progetto, ne è e ne sarà parte integrante. Spero davvero che questo gli possa dare il riconoscimento che merita, perché auguro a chiunque di passare attraverso la sua sapienza. 

“Marta D” è descritto come un brano che oscilla tra l’intimismo e il realismo, con una narrazione metaforica che evoca una gamma di emozioni contrastanti. Puoi raccontarci di più sul processo di scrittura di questa canzone e su cosa ti ha ispirato a creare questa particolare atmosfera?

Non vorrei trovarmi a ripetere le stesse parole con cui ho introdotto la domanda precedente, né risultare una mistica da tre soldi. Ma anche l’incontro tra la musica e le parole di Marta D ha ricalcato un destino simile all’incontro con Muce. Le note di Marta D hanno incontrato le sue parole tanti anni dopo. Questo è accaduto spesso a moltə artistə ben più noti e autorevoli, ma la cosa incredibile è come quel testo e quelle note – create nei due nuclei originali da due persone che si sono conosciute molto tempo dopo – si sono incastrate sin dal primo istante come se si fossero cercate ed attratte sin dal loro concepimento. E questo nel mio disco è successo per molti pezzi, per questo mi sono persuasa a mettermi a sua completa disposizone, per questo me ne sento un tramite. Da quella fusione, si è come innescata una reazione a catena che non ha solo evoluto il pezzo, ma in qualche modo ha segnato la genesi dell’intero disco a partire dalle alchimie profondamente umane che lo hanno alimentato. Marta D, passata tra le mani di ulteriori due persone (che hanno sviluppato ancora testo e musica nella fase di arrangiamento e produzione fino all’ultima mossa del mix) ha di fatto creato la piccola moltitudine che è Evelina, come un lievito, un’anima che si è servita di quella coralità per tornare a esistere, a far pensare, spero a emozionare. Ti parlo del suo lunghissimo processo creativo e della serendipità da cui si è preso il suo spazio, perché tutto questo ha molto a che fare con la sua emotività a fior di pelle, con la sua complessa drammaturgia, sia testuale che compositiva. Marta D è (come il disco di cui è stata l’innesco) il kintzugi di un vaso distrutto a mazzate e riemerso dal tempo, la cui ricomposizione è stata presa e lasciata per moltissimi anni, che ha rischiato anche di essere abbandonato e frantumato ancora, ma che ha lottato col caso e col caos per esistere e per meritarsi l’oro sulle sue ostentate ferite. E spero che tutto questo processo, la sua necessità, i sensi che si porta, possa vivere una nuova vita nelle altre e negli altri, senza guardarsi più alle spalle. 

Nelle tue parole, “Marta D” è il racconto di una lotta che esplora temi come la vulnerabilità, il dolore e la ricerca di libertà. Come ti sei preparata emotivamente per condividere queste esperienze attraverso la tua musica e quali speranze hai riguardo alla reazione del pubblico?

Mi sono preparata semplicemente prendendomi il tempo di vivere, per poter trasmettere ciò scrivo con la persuasione e i dubbi di chi l’ha vissuto davvero. Sono un processo in divenire, l’archeologia delle storie e delle anime che mi hanno creata, la libertà che mi sono presa di concentrare tutte le mie energie e la mia cura sul contenuto anziché sul suo involucro, mi ha dato modo di dedicare a questa espressione tutto lo spazio, il tempo e l’intensità necessari. Il mio avatar è una figura nascosta da uno specchio, contro un muro,  in balia di una marea che forse la sommergerà, forse la risparmierà. Sarà probabilmente dovuto al fatto che il disco è stato in buona parte registrato durante la pandemia e ultimato quando sotto i nostri occhi ancora ferocemente chiusi la Guerra Grande (per dirla con Limes) stava compiendo il suo ennesimo salto di qualità, ma tutto quello che mi ha mossa è stata l’urgenza di gridare, l’istante prima di una catastrofe. Non è stato difficile trovare in me e intorno a me, quelle emozioni rotte che ammorbano chi, tra le mura di questa fortezza in declino, ha tutto da perdere senza averlo neanche meritato, chi è a repentaglio pur avendo vissuto per troppo tempo senza responsabilità, lontano dalla storia e dal dolore altrui, chi ha dovuto disumanizzare chiunque per iperumanizzare se stessə e i propri animali domestici. Non mi è stato difficile cacciarle fuori da me nel tentativo disperato di liberarmene e di guardare tutto questo da molto lontano. È stato doloroso e liberatorio, e la mia voce in Marta D è spezzata da questo insanabile cortocircuito. E proprio per questo tramite arrivo alla chiusura della tua domanda e della mia risposta. Ho voluto fare malgrado tutto un disco pop e rock, che scarnificato all’osso può essere suonato in spiaggia con una chitarra e una voce, ho voluto che omaggiasse la leggerezza e insieme la profondità della nostra cultura musicale. Il debito verso quell’autorevole tradizione non è o non è solo estetico, ma etico e politico. La musica “leggera” italiana, non si percepiva e non si dava come pura distrazione di massa, è stata un’imprescindibile fonte di educazione civica e sentimentale, ha partecipato potentemente alla trasformazione e all’espansione dello spazio emotivo e culturale di un intero Paese. Nulla di omogeneizzato e omologante, senza per questo rinunciare ad essere abitabile da chiunque, universle. Una  punta altissima della produzione culturale Italiana a cui ho sentito la necessità di aggrapparmi, senza alcuna nostalgia, nel metodo ancor più che nel merito. Confidando nelle capacità trasformativa della musica leggera e nella capacità tutta italiana di farla propria, porgo uno specchio senza offrire alibi o scorciatoie, nella speranza che ci si sappia ancora rivolgere alla sua superficie. Non lo facciamo più da troppo tempo. E questo determinerà l’accettazione o il rifiuto radicale di questo mio piccolo ma sincero e innamorato gesto. Me ne assumo tutta la responsabilità. 

Ci descrivi il lavoro con solo 3 aggettivi?

Coraggioso, libero, desiderato. 

Lasciamo l’ ultimo spazio dell’ intervista al nostro ospite. Puoi ora lanciare un tuo messaggio o rispondere alla domanda che avresti voluto ma non ti è stata fatta!

Vengo dal nulla, ma da molto lontano. Sono qui, sgrammaticata, ritardataria, incurante di tutto quello che avrei dovuto fare e dire per avere il diritto, l’autorevolezza e i numeri per essere ascoltata. Ma non c’è tempo e non c’è più tempo, non amo delegare, non ho paura di fallire, e ora più che mai vedo che troppe voci (antiche o fresche che siano) capaci di raggiungere i cuori e le menti di tantissimə di voi, hanno scelto di tacere. E le poche che provano a farlo vengono messe all’indice, grazie alla complicità di chi ha imparato i vantaggi del voltarsi sempre dall’altra parte. Una canzone definitiva e tragicamente profetica di Faber diceva “voi che avevate lingue potenti, adatte per il vaffanculo” e finiva con un coro di cicale, da Palermo ad Aosta. La biografia degli ultimi 30 anni di storia. Il rumore e il torpore ai quali ci siamo condannatə e dal quale non riusciamo più a uscire va rotto e interrotto. Io non so tacere e la musica, può ancora fare. Questa è la domanda. Cosa può fare ora e ancora una musica? 

Instagram – @evelinamusica